Filosofia

Dante Alighieri: genio di umanità

L’approfondimento di Cristiana Freni, docente di Filosofia del Linguaggio e Letteratura in vista dell'anno dantesco
  12 novembre 2020

Dante muore settecento anni fa, ma la sua eredità vive tutt’ora. Sette secoli non li dimostra. Ancora studiato, amato, proclamato, continua ad offrirci chiavi dirimenti per affrontare le crisi della post-modernità.

Il mondo di Dante non si può risolvere nel particolare, ma abbraccia l’universale, perché il medioevo è stato inclusivo negli approcci conoscitivi. Simboli, fede, ragione, esistenza, politica, erano riconducibili ad una visione integrale della realtà. In questa fedeltà al reale, trova di certo spazio anche la questione della lingua. Perché parlare vuol dire ancorarsi alla verità.

Dante Sommo poeta. Ma Dante anche Padre della lingua italiana. Con lui la questione si fa davvero seria. Il suo volgare, quello della sua patria madre e matrigna, assurge a idioma ben diverso dagli altri dialetti. Lo lavora, lo cesella e lo sceglie al latino per esprimersi nelle sue opere più grandi. La leggerezza della Vita nuova, la chiarezza del Convivio, la dissonanza delle Rime petrose. E poi l’espressione multiforme della Commedia: gli echi tenzonistici delle Malebolge, la lirica adamantina del Paradiso, le narrazioni dei mille personaggi chiamati sulla scena e rispinti nell’ombra, di cui ci restano parole inchiodate alle immagini che essi hanno scolpito. Ascoltiamo in silenzio, sconvolti, coinvolti, travolti dal logos dantesco. Dante modulò l’italiano duecentesco allora giovane a toni di altezza tali, da farlo diventare in breve adulto. Erano tempi difficili, anche per la lingua. Non c’era identità e unità stabile e la lingua poteva garantirla, anticiparla. Scegliere il volgare toscano fu impresa rischiosa, ma foriera di generatività. Non poteva prevederne gli effetti, ma voleva essere compreso da tutti, data la missione che lui stesso si era tributato in qualità di Scriba Dei. ’l poema sacro al quale ha posto mano cielo e terra, aveva come destinataria l’umanità, i viventes, come precisa nella Epistola XIII a Cangrande. Da questo amore per l’umanità, Dante perfeziona e matura l’italiano. La parabola della sua poesia è un tutt’uno con quella della lingua. Parlare e capirsi significa ri-conoscersi ed è questo il miracolo che si rinnova ancora da sette secoli. L’italiano di Dante non fu solo frutto di una strategia espressiva, ma di una intuizione diaconale e mistica.

È bello ricordare che dietro la sua lingua c’è passione per l’umano, c’è solidarietà con i lontani, con i meno colti, con gli emarginati. Quella lingua fu pensata col ritmo del cuore, non solo dei suoni, per essere detta ad alta voce, anche dal popolo analfabeta. E così ruminata e gustata come viatico di salvezza.

Dante ci parla in italiano, ma ci parla anche con l’italiano. E così accoglie ancora nel mondo della sua parola i viventes di ogni tempo e cultura.

 Cristiana Freni

Facoltà di Filosofia